Katiuscia Spada: scrivo futuro ma leggo Compak
Con la conquista dell’ennesimo titolo mondiale della disciplina si consolida la vocazione storica dell’atleta umbra nei confronti di quelle specialità che già venti anni fa l’hanno proiettata ai vertici planetari
(di Massimiliano Naldoni)
Ritorno al futuro è definizione certamente inflazionata anche nello sport, ma nel caso di Katiuscia Spada (nella foto di copertina: al centro sul podio del Mondiale con la francese Hatem e la svedese Bergkvist) l’espressione descrive perfettamente la direzione che la vita sportiva dell’atleta umbra ha assunto nelle stagioni più recenti. Chi scrive ha visto Katiuscia conquistare il primo titolo mondiale di Sporting tra le foreste delle Ardenne nell’estate del 2000 e certamente per l’atleta di Città della Pieve quella straordinaria affermazione in Belgio resta una pietra miliare della carriera e anche un episodio che ha impresso una forma definitiva alla stessa vita sportiva della sua autrice. Per Katiuscia Spada quel titolo è stato soltanto il primo di una lunga sequenza: l’azzurra ha vinto di nuovo l’alloro iridato nello Sporting nel 2004; nel 2005 e nel 2007 sono arrivati poi anche i titoli mondiali nel Compak. Tutto questo mentre la carriera di Spada si muoveva agilmente anche nelle discipline olimpiche, tant’è che risale al Mondiale di Skeet di Cipro del 2003 quell’argento che legittimamente convinse Katiuscia a intraprendere in parallelo una fruttuosa carriera nella disciplina olimpica del Pull e del Mark.
Katiuscia, dall’alto di tutta questa tua esperienza agonistica, come hai vissuto il Mondiale di Csákberény?
Nelle gare di un certo livello senti comunque sempre la tensione anche se sono arrivata al Mondiale da una stagione molto positiva in Italia, da una serie di Gran Premi ben disputati e da una bellissima gara anche all’Europeo con un terzo posto ad un piattello dalla prima. Quindi sono quelle circostanze in cui sai che le tue possibilità ci sono, però ogni gara è una storia a sé.
Katiuscia e Veniero Spada
Un tuo giudizio sui lanci con cui si è disputato questo confronto iridato in Ungheria?
Piattelli difficili non è la definizione adatta. Diciamo piuttosto più correttamente: piattelli a cui non siamo abituati. Infatti, nonostante che in allenamento avessi sparato bene, avevo capito che era difficile portare a termine una bella gara. Quindi mi sono detta: mettiamocela tutta, testa bassa e avanti. Certamente quello in cui abbiamo gareggiato è un campo che non regala niente. Il primo giorno è arrivato un 48, non dico inaspettato ma abbastanza sorprendente: quel 48 l’ho costruito con pazienza, piattello dopo piattello. Il secondo giorno è venuto fuori un 46, ma nessuno può credere quanto sono contenta di quel 46 perché soltanto io so quanto ho faticato a totalizzarlo con condizioni climatiche estreme, con grande tensione e stress. In quella giornata ho fatto due zeri che sono stati due regali alle avversarie: ad esempio credo di essere stata l’unica persona in gara a sbagliare quell’entrante singolo dalla terza pedana su uno dei campi che ho affrontato quel giorno. Un lancio talmente semplice che era davvero impossibile sbagliarlo. Però l’ho sottovalutato. In allenamento avevamo sparato con l’effetto del vento che tratteneva questo piattello un po’ più lontano e quindi costringeva a dare un anticipo. In gara è cambiata la direzione del vento: e quel vento avvicinava il piattello al tiratore e lo schiacciava trasformando completamente le caratteristiche che avevo individuato in allenamento. Ma fa parte del gioco: ti sveglia un po’. Allora mi sono detta: hai fatto un errore banale. D’accordo, allora adesso si deve andare avanti con un piattello per volta senza altri errori. Pensavo sinceramente di aver buttato via la gara e invece con quel 46 in quel momento sono riuscita a rimanere in partita. In certo modo la costanza è stata proprio la mia forza in questa gara.
Quanto è diverso il Compak del 2024 da quello dei primi anni Duemila?
Io ho vissuto il Compak attivamente fino al 2009 ed è cambiato tanto rispetto a quegli anni. L’ambiente è perfino quasi stravolto: adesso nei fatti il livello tecnico è da professionisti. Oggi non improvvisi più niente in una gara di questo genere: vai e ottieni il risultato soltanto se hai una preparazione adeguata. Se ti improvvisi, ti può andar bene una serie o due, puoi reggere una giornata o due, poi però la differenza si vede. Una volta c’erano alcuni tiratori e alcune tiratrici molto forti nel panorama, mentre adesso ci sono tantissimi e tantissime che hanno grandi qualità e grande preparazione tecnica e agonistica. Ci possiamo anche chiedere: stiamo davvero ancora parlando di discipline amatoriali? Sì, in effetti parliamo ancora di discipline amatoriali perché il Compak in realtà coinvolge ancora tantissime persone che lo praticano con mentalità amatoriale, ma sicuramente nel frattempo c’è una larga fetta di praticanti di livello professionistico.
È questo che inevitabilmente costringe ad una corsa continua al punteggio sempre più alto?
La tendenza a disseminare le gare internazionali di piattelli che consideriamo abbordabili costringe tutti e tutte noi a dover conseguire un punteggio molto alto. È vero che questa volta qualche difficoltà in più c’era, perché ad esempio in Portogallo con un 193/200 ho dovuto spareggiare per arrivare terza. Se facciamo un confronto strettamente numerico con quello che erano le gare quindici o venti anni fa, c’è veramente un abisso. Punteggi di questo livello non erano neppure immaginabili. E possiamo certamente definire un ottimo punteggio il 189 che ho fatto al Mondiale, ma dobbiamo anche riconoscere che con tre o quattro piattelli in meno in realtà sarei stata fuori dal podio. Questo dà la misura precisa del livello di competizione che stiamo affrontando. Perché, sempre per fare un esempio, nel Mondiale di Sporting che ho vinto nel 2004 ho dato dieci piattelli di distacco alla seconda e venti alla terza.
Katiuscia Spada esultante per il titolo iridato a squadre insieme a Carla Flammini e Veronica Bertoli
Cosa può fare ancora la differenza nel Compak attuale?
La frase che si sente ripetere più frequentemente sui campi di tiro di Compak è: hanno imparato a sparare tutti. Ed è anche vero: perché è certo che in tutto il mondo oggi ci sono atleti e atlete che possono permettersi di allenarsi tanto, di prepararsi tanto e quindi di praticare il Compak come lavoro. L’esperienza però conta sempre. Sia nello Sporting che nel Compak aver sparato in tanti impianti diversi e aver fatto esperienza degli sfondi più vari ha ancora il suo valore quindi è proprio aggiungendo alla tecnica questo bagaglio di esperienza, cioè: il patrimonio di vita vissuta sui campi, che si può continuare a fare la differenza.
(foto: Marco Greco e Carlo Sestini)